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Sound research Stanford University

Ecco le ultime novità provenienti dalla prestigiosa università di Stanford riguardanti le ricerche sulle applicazioni del suono in medicina.
Ricordate la Cymatica?

https://stanmed.stanford.edu/listening/innovations-helping-harness-sound-acoustics-healing.html

Voci in ascolto (David Rossato)

Ascolto profondo e improvvisazione

Ascoltare la voce fa parte della nostra esperienza comune: siamo abituati a riconoscere una persona dalla sua voce, anche se non ci appare di fronte. La voce ci permette di riconoscere l’individuo non meno del suo aspetto fisico, infatti, alla singola voce umana Italo Calvino attribuiva la capacità di esprimere la vera identità di chi parla. Nell’ambito della psicoterapia gestaltica, lo stesso Fritz Perls invita i terapeuti a non concentrarsi tanto sui contenuti prodotti dai clienti, sulle loro parole, quanto ad ascoltarne il suono, la musica della voce. Queste suggestioni iniziali sono alla base della mia ricerca intorno all’ipotesi di un counseling centrato sulla voce.

L’incontro di counseling è di fatto un dialogo fra due voci, quella di una persona-cliente e quella di una persona-counselor, e presenta sempre e comunque, anche se implicitamente, delle valenze di cura in quanto è intrinsecamente orientato verso la comprensione, cioè all’aiutare l’altro ad enunciare il proprio mondo di significati. (Lizzola, 2002) Il colloquio di counseling è in questo anche relazione, intesa come tensione tra due soggettività, energia che influenza attraverso il vuoto che c’è tra due persone: noi non possiamo conoscere l’altro, ma solo la relazione che noi abbiamo con esso (E.Spaltro, 1985).

Il processo di counseling è insomma – per usare una metafora musicale – una sorta di improvvisazione a due. Un processo che non può infatti prescindere dall’ascolto attento e profondo dell’altro, e al contempo di se stessi: “è un’abilità centrale” scrive Gabriella Pravettoni “nel lavoro clinico dello psicoterapeuta integrato, poiché la terapia […] presuppone la necessità di vedere l’altro per quello che è ed accettarlo. Attraverso l’ascolto […] può essere in grado di riconoscere nell’altro il fluttuare dei cambiamenti caratteristici del dinamismo insito nella psiche umana” (G.Pravettoni, 1999). Queste parole mi hanno riportato alla mente quelle del filosofo Jean-Luc Nancy che all’ascolto ha dedicato un bellissimo saggio: “Come un rinvio oscillatorio di «consonanze», nella cui «interiorità», nella cui intima e reciproca tensione – di cui evidentemente fa parte integrante il «sentire», l’ «udito» e dunque l’ «ascolto» – prende forma un’identità. Ecco è questa l’ «interiorità», il «suono interiore» […] Un’ «interiorità» che è il «risuonare» delle cose tra loro” (J.L.Nancy, 2004).

Anche per Carl Rogers, il padre del counseling, l’ascolto è una messa in gioco delle parti emotive più profonde, più inconsce, tramite adeguati aggiramenti delle difese razionali. E ciò accade con una serie di aggiustamenti e un continuo scambio tra le parti, che è incontro ed atto creativo bilaterale. Per descrivere il momento di contatto nella terapia fra cliente e terapeuta è stata usata la bella metafora della ricerca di sintonia fra due persone che parlano con una ricetrasmittente. “Ognuna delle due persone deve muoversi lentamente nella ricerca della corretta frequenza di trasmissione senza trascurare il più piccolo indizio trasmesso dall’altra radio. In seguito, stabilito il primo contatto, diventa necessario ottimizzare le frequenze d’onda alla ricerca di una sempre migliore sintonia” (G.Pravettoni, 1999).

Esattamente come nell’improvvisazione musicale: un processo – similarmente a quello terapeutico – in cui vi è un “campo” (cioè uno spazio ed un tempo condivisi che forniscono la struttura – come nel setting), vi sono degli “attori” che si mettono in gioco (e guarda caso in inglese suonare si dice «to play», in francese «jouer») e quindi in movimento ascoltandosi vicendevolmente mentre avanzano, ricercando “in progress” percorsi comuni e una sempre maggiore “sintonia”. Lo scopo lì è “fare musica” insieme in modo armonico, fluido, in modo a-sistematico ma consapevolmente: “l’improvvisazione è tanto più libera quanto più è consapevole” (A.K. Maggia, 2004). Analogamente, nel counseling la relazione d’aiuto si estrinseca attraverso un processo empatico che promuove la libera espressione dell’individuo, basato su presupposti di autenticità reciproca e di consapevolezza.

Sia il counseling che l’improvvisazione musicale si rivela quindi punto d’incontro fra ascolto, consapevolezza e creatività.
E’ innegabile inoltre che il colloquio si esplichi proprio attraverso la materialità della voce: essa trasporta dei contenuti mentali attraverso una fisicità, che è poi sonorità, che fa sì che con essa si trasmetta tutta la carica di relazionalità propria della comunicazione non verbale. La voce possiede sue precipue qualità, che ne costituiscono una vera “forma” (in fisica acustica si parla infatti di “formanti vocaliche” alla base del timbro unico di una voce). Questa forma mette in scena l’interiorità stessa dell’essere umano, facendo accedere a qualcosa di invisibile che si trova al di là dell’apparenza: la voce è aria suonata dal corpo, una risonanza delle cavità interne, ma anche un dare aria all’anima, così come anima all’aria. Ecco quindi che un lavoro sulla voce può entrare a pieno titolo nel processo di potenziamento delle capacità di autopercezione, autoconoscenza, autodeterminazione e comunicazione che sono alla base di qualsiasi approccio di counseling.

 

L’ascolto fluttuante del diapason-soggetto

Tra i fenomeni vibrazionali, generati all’interno del nostro corpo, la voce, intesa come prodotto della sinergia tra respiro e laringe, assume una importanza eccezionale. Lo scopo di questa vibrazione, che, se ben condotta diventa con l’esercizio parola e canto, è quello di raccogliere i vissuti dell’intero corpo e farne, con il suono, uno strumento di comunicazione dall’interno all’esterno e viceversa. Le informazioni che attraverso il suono possiamo ricevere e dare sono di tale portata che ad un orecchio e ad un corpo allenato e consapevole niente sfugge di quanto succede ed è percepibile contemporaneamente da orecchio, occhio, pelle, ossa e sistema nervoso. Su tali principi si fonda il fenomeno dell’empatia.

In tal senso va posta una “distinzione fra oralità e vocalità” definendo «oralità» il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio; «vocalità» l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio. […] Il bambino piccolo non parla, ma quali significati è in grado di comunicare attraverso le semplici modulazioni della propria voce, cui rispondono, più che le parole, le modulazioni della voce della madre! La voce è suono. Il suono è l’elemento più sottile della materia percettibile. Nella storia di ciascuno di noi, come nella nostra storia collettiva, fu proprio esso, in origine, il luogo di incontro dell’universo e dell’intelligenza.” (P.Zumthor, in C.Bologna, 1992).

Ciascuno di noi, nel comunicare con la parola e con il corpo sviluppa un suo specifico linguaggio sonoro, suonando se stesso e risuonando al contatto con il proprio ambiente. Ogni essere umano suona il suo strumento vocale, per trasmettere qualcosa che va oltre il testo verbale. Segnala la parte non-ancora-simbolizzata dell’esperienza psichica attraverso la vocalità, prima che giunga a essere detta. Sviluppa un suo codice sonoro, per segnalare qualcosa di più del puro e semplice messaggio linguistico. Lancia segnali musicali, soprattutto ritmici, in attesa che altri li raccolga e stabilisca con lui un’intesa pre-linguistica, paragonabile all’accordo che si realizza in una danza. […] Un ascolto che sappia conferire il giusto rilievo a suoni e significati verbali […] comporta una sintonia sensoriale, una stretta relazione con la componente fisica delle parole, che facilita una comprensione più completa del loro messaggio. […] In quest’area lavora un pensiero di tipo musicale, che trasforma le immagini in suoni atti a fungere da precursori del linguaggio verbale. […] Rivolgendo l’attenzione al suono più che al significato delle parole si consegue un livello di segni non strutturati secondo la logica verbale e tuttavia già organizzati in una certa misura, sì da potersi configurare come pre-linguaggio. Un tipo di ascolto sensibilizzato ai valori fonici e alle figure emergenti dal suono scova nella musicalità del parlare un risvolto pre-rappresentativo che giace nell’inconscio in condizione di latenza verbale. Da questo punto di vista il latente non è solo un’altra scena sotto quella manifesta, ma anche tutto ciò che sta annidato nei suoni della voce a costituire l’ordito sonoro di un discorso a venire. Nell’area di un sensibile ascolto vengono svolte operazioni integrative di carattere musicale e viene conferita una logica di tipo pre-simbolico alla comunicazione non-verbale e infra-verbale del paziente.” (A. Di Benedetto, 2000).

Il peso energetico che noi poniamo nel metterci in contatto con qualcuno, per rivolgergli la parola, è tanto forte che, se non troviamo attenzione, la delusione che proviamo è tale da trasformarsi immediatamente in ira e rabbia. Segno che il bisogno dell’ascolto è veramente fortissimo.

Troppi parlano e troppo pochi ascoltano,e proprio per questo motivo “aumenta sempre di più il bisogno di essere ascoltati, di manifestare con la voce la nostra soggettività, il nostro essere al mondo” (G.Giuliani, 1990).

Il filosofo Jean-Luc Nancy sottolinea che nell’ascolto “il suono e il senso si mescolano e risuonano l’uno nell’altro o l’uno attraverso l’altro” (2004). In altre parole, la caratteristica principale di ogni evento sonoro, e quindi anche della voce, è quella di racchiudere tutto il proprio senso esattamente nell’“attualità superficiale dell’ascolto, ovvero nella fenomenalità dell’apparenza sensibile”. Nell’ascolto “balza alla massima evidenza […] un’altra modalità del ‘con-essere’: dell’essere insieme, intrecciati in infinite onde relazionali.” Nancy sottolinea come il sentire è sempre un ri-sentire, cioè un sentir-si-sentire, e conia la suggestiva immagine del diapason-soggetto: “l’ascolto genera una singolare modalità di apertura del e nel corpo di chi ascolta, giacché il suono, risuonando attorno a questi, contemporaneamente risuona in lui, entra e dilata il suo corpo, mettendolo al di fuori di se stesso. […] Essere all’ascolto è essere allo stesso tempo fuori e dentro, […] consisterà sempre in un esser-teso-verso, oppure in un accesso a sé”. Si potrebbe dire, con la psicologia transpersonale o prima ancora con Gurdjeff, che l’ascolto possa aiutare a sviluppare “il testimone”, ovvero la “doppia attenzione” indispensabile al “ricordo di sé”, scopo di ogni pratica meditativa.

Anche in ambito psicoterapeutico negli ultimi anni si è dato sempre più valore a quelle attitudini ricettive, quali “attenzione fluttuante”, “réverie”, “empatia”, “controtransfert” più vicine al corpo e all’inconscio e meno influenzate dal Logos. Per Antonio Di Benedetto (2000) il terapeuta deve sviluppare “l’attenzione su un tipo di ascolto che, come quello musicale, solleciti la mente a retrocedere verso il corpo, nel quale si incarna sintomaticamente l’inconscio. Cortocircuitando momentaneamente il pensiero razionale, un ascolto sospeso tra suono e significato predispone a un primo contatto sensoriale-uditivo con l’inconscio somatizzato. […] Occorre fare appello a una naturale capacità di conoscenza sensitiva, chiamata “aisthesis” dagli antichi greci.”

Sottolinea inoltre “l’importanza di un’ ‘intelligenza senziente’ ai fini della comprensione di un’altra persona”, e ritiene che “possa essere di grande aiuto a tal fine la frequentazione delle opere d’arte, l’accostarsi, cioè a quei prodotti “estetici” che sono una delle manifestazioni più visibili della sensibilità estesica della sua utilizzazione quale organizzatore delle prime forme d’esperienza. L’oggetto estetico sembra essere l’incarnazione di quella che Bion ha ipotizzato alla base dei processi di mediazione tra sensorialità e pensiero. Tramite la visione di un artista possiamo vedere cose cui la nostra comune percezione non giunge. […] L’emozione estetica rigenera ‘messianicamente’ il nostro vedere. L’oggetto artistico sollecita un atteggiamento pre-riflessivo, sintonizzato con la visione dell’artista. […] Questo tipo di attenzione esteticamente orientata, consentendoci di andare al di la del già-udito, deI già-detto, del già-visto sostiene la curiosità di esplorare quanto vi è di piu specifico nella persona con cui abbiamo a che fare, acuisce la sensibilità a coglierne la ‘singolarità’. L’inaudito, il non-pensato, il non-detto, quella parte di esperienza psichica denominata spesso ‘ineffabile’, può essere in una certa misura afferrata grazie a una recettività estetica.”

Ritengo auspicabile che questo tipo di attenzione venga ricercata, coltivata e sempre più affinata anche dal counselor, così seguendo in fondo – la via aperta ed indicata da Carl Rogers, del quale riporto in chiusura alcuni pensieri:

“E’ stato grazie all’ascolto delle persone che ho imparato tutto ciò che so circa gli individui, la personalità, le relazioni interpersonali. Vi è un’altra soddisfazione peculiare nell’ascoltare realmente qualcuno, poiché al di là del messaggio immediato della persona, indipendentemente da quale esso sia, c’è l’universale. Dietro tutte le comunicazioni personali che realmente ascolto sembrano esserci delle ordinate leggi psicologiche, aspetti dello stesso ordine che troviamo nell’universo intenso come un tutto. Così, c’è al tempo stesso la soddisfazione di ascoltare questa persona e la soddisfazione di sentirsi in contatto con ciò che è universalmente vero.
Quando dico che gioisco nell’ascoltare qualcuno, intendo naturalmente un ascoltare profondo. Voglio dire che presto attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni sentimentali, al significato personale e anche al significato che è sotteso all’intenzione cosciente di colui che parla. […] Così, ho imparato a chiedermi: posso sentire i suoni e percepire le forme del mondo interno di quest’altra persona? Può esservi in me una risonanza così profonda per ciò che egli dice al punto di intuire i significati che egli teme e tuttavia vorrebbe comunicare come fa con quelli che conosce? […] Molto spesso […] le parole portano un messaggio e il tono della voce ne porta un altro nettamente diverso. […] Quasi sempre, allorché la persona sente di essere stata profondamente ascoltata, i suoi occhi si inumidiscono. Penso che in un senso in certa misura realistico essa stia piangendo di gioia. E’ come se stesse dicendo «Grazie a Dio, qualcuno mi ha ascoltato. Qualcuno capisce cosa mi sta accadendo». In momenti simili mi è venuta talvolta la fantasia di un prigioniero che si trova in una cella sotterranea e che giorno dopo giorno trasmette con piccoli colpi il seguente messaggio in alfabeto Morse «Qualcuno mi sente? C’è qualcuno?». Finalmente un giorno ode alcuni deboli colpi che dicono «Sì». Con questa semplice risposta egli è sollevato dalla sua solitudine; è diventato nuovamente un essere umano. Ci sono moltissime persone che oggi vivono in celle private, persone che non lo lasciano trasparire in alcun modo all’esterno, persone che vanno ascoltate con acuta attenzione per udire i messaggi che provengono dalla loro cella […] Quando sono davvero ascoltato, sono anche capace di ripercepire il mio mondo in un modo nuovo e di proseguire. E’ sbalorditivo come certe cose che sembrano insolubili diventano solubili se qualcuno ci ascolta, come una confusione che sembra irrimediabile si trasforma in un flusso che scorre con relativa limpidezza. Ho apprezzato profondamente le volte in cui ho sperimentato questo ascolto sensibile, empatico, concentrato”. (C. Rogers, 1983).

L’articolo è tratto dal libro: “Voiceling. La voce che cura – Spunti per un counseling centrato sulla voce”, acquistabile qui:

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/32973/la-voce-che-cura/

Foto: Piero Della Francesca, “L’adorazione del ponte”  dal ciclo “Storia della Croce, Arezzo. Chiesa di S. Francesco-dettaglio delle ancelle.

David Rossato è visual e sound designer, counselor, compositore e musicista elettronico. Ha scritto musica per l’arte, il cinema, il teatro, reading poetici e rassegne di musica contemporanea. Dopo il conseguimento di un master triennale inizia ad occuparsi di Gestalt Counseling; successivamente si avvicina alla psicologia transpersonale e alle tecniche musicoterapeutiche, approdando quindi allo sciamanesimo transculturale, che pratica da anni tenendo regolarmente cerchi e seminari.

Per contatti: dvdrossato@gmail.com

Lo Yoga Ratna-il gioiello dello Yoga (Patrizia Martinelli)

propone un cammino per entrare dentro se stessi e potersi conoscere al di là degli specchi (quelli reali o anche quelli che ci rimandano le altre persone), aprirsi alla consapevolezza e scoprire il gioiello nascosto in ognuno per poter ridefinire la propria identità.

La maestra Gabriella Cella ha ideato questo metodo che si basa su una ricerca che pone al centro il simbolo, legato alle forme del corpo e del respiro con tutta la sua forza dirompente.

Il corpo si esprime in tante forme differenti, tante quanto l’universo ne può contenere e quante la mitologia e la simbologia più antica hanno manifestato, forme che hanno un riferimento reale oppure meramente fantastico, che esprimono modalità legate al femminile oppure al maschile.

Proprio osservandosi senza giudizio, nell’immobilità dell’asana, ascoltando il tipo di respirazione che si crea, percependo l’elemento e dunque il Raja Chakra che è influenzato, è possibile risvegliare il simbolo che agisce all’interno. Accogliere ciò che appare senza giudicare, vivere l’armonia e l’eleganza del gesto, lasciare affiorare sensazioni di piacere o di disagio senza sottrarsi, può far emergere parti di sé finora ignote e sperimentare la complessità dell’esistenza.

E altrettante possibilità ce le offre il respiro che ci porta all’interno ed è strumento di autoconoscenza. Con il pranayama impariamo esercizi che ci permettono di individuare il nostro stato energetico e che producono effetti benefici come farci superare stati emozionali intensi, trovare la calma e la concentrazione e che possono equilibrare, rilassare o energizzare a seconda di quello di cui abbiamo bisogno. Esercizi che hanno particolari caratteristiche simboliche oltre che azioni terapeutiche ed energetiche.

E non dimentichiamo che il respiro può diventare suono con i Mantra (che significa strumento per la mente): quando i dati sensoriali ed emotivi che ci raggiungono e ci coinvolgono, creano confusione al nostro interno e la mente riflette un’immagine distorta della realtà, la recita dei mantra può favorire il silenzio della mente e lo scorrere dell’energia vitale. Dedicandoci a questa pratica in una ricerca che ha bisogno di una guida attenta, è possibile sperimentare come sia possibile diventare un tutt’uno con questi suoni e realizzare di essere una cassa di risonanza dell’armonia universale. Con i Bija Mantra (Mantra seme) relati ai Maha Raja Chakra (che sono vibrazioni cosmiche concentrate nel microcosmo umano e rappresentano le tappe evolutive nel percorso realizzazione individuale) ci si riferisce a suoni che vanno ad amplificare la concentrazione su questi Centri di energia e sugli elementi ad essi correlati, per stimolarli.

Se si avverte la spinta a voler cambiare qualcosa di se stessi o della vita che si conduce, lo Yoga Ratna ci aiuta. Se in una determinata fase della vita si ha più bisogno di forza o di equilibrio, di fluidità o di fermezza, di abbandono oppure di stabilità, è possibile scegliere esercizi respiratori e mantra adatti alla situazione, così come posizioni di eroi ed eroine, di divinità, di animali, di elementi della natura in cui si evidenzi quella qualità che ci interessa potenziare.

La pratica di questo tipo di Yoga diviene uno strumento duttile e prezioso a disposizione di chi non voglia perdersi in vane acrobazie o effetti consolanti, ma intenda liberarsi dalle abitudini con cui è solito definirsi.

 

Patrizia Martinelli ha conosciuto lo Yoga all’inizio degli anni ‘80 e si è diplomata presso l’E.F.O.A. (European Federation of Oriental Arts) nel 1992 e presso la S.I.Y.R. (Scuola Insegnanti Yoga Ratna) nel 2003. E’ socia YANi (Associazione Nazionale Insegnanti Yoga). È appassionata alla ricerca in questo ambito ed a questo fine ha viaggiato in India , soggiornando in alcuni Ashram, e continua a seguire percorsi formativi e sentieri d ricerca. Vive a Lucca dove insegna Yoga da trenta anni presso l’associazione da lei fondata, il Centro Amrita. patrimartix@gmail.com   3293773096

Cosa significa educare ai valori? (Diego Miscioscia)

di Diego Miscioscia, psicologo e psicoterapeuta

Dare significato alla propria vita facendo riferimento a valori profondi in cui crediamo rappresenta una delle principali condizioni di serenità e benessere per ogni essere umano. A volte si confonde il benessere legato al possedere dei valori con il possesso di una buona educazione. In realtà, si tratta di cose completamente diverse: un adulto può essere ben educato nelle relazioni sociali e spietato con i propri figli o con la propria moglie.

Questo è il primo anno in cui in Italia è obbligatorio l’insegnamento dell’Educazione Civica. Ma, quanti insegnanti e quanti genitori hanno in mente quali sono le basi naturali di questa disciplina? E’ forse sufficiente inculcare nei bambini e nei ragazzi alcuni principi etici per avere dei buoni cittadini? In effetti, così facendo, rischiamo soltanto di imporre dei comportamenti non sentiti da parte di chi cresce creandogli dei conflitti interni. In adolescenza, poi, quando una regola viene suggerita dagli adulti e non è sentita come propria da parte dei ragazzi, essi di solito tendono a fare proprio la cosa opposta. La vera educazione civica, invece, coincide col far maturare in ogni bambino e in ogni ragazzo delle parti di sé che favoriscono spontaneamente la sua adesione a comportamenti etici.

Non è per niente sufficiente, dunque, pensare per le nuove generazioni a un intervento nozionistico superficiale di qualche ora di Educazione Civica nell’ambito del loro curriculum scolastico. Tale operazione, infatti, rappresenterebbe soltanto una sorta di maquillage superficiale che nasconderebbe il vuoto affettivo e quindi etico a cui è condannato chi cresce all’interno dell’attuale cultura.

Ma cosa sono gli ideali e quali sono le loro basi naturali? E’ di questo che mi occupo nel libro di psicologia “I valori degli adolescenti. Nuove declinazioni degli ideali e ruolo educativo degli adulti” che uscirà con la casa editrice Franco Angeli nell’aprile del 2021.

Provo qui a riassumere quali sono le basi psicologiche che devono guidare un vero progetto di Educazione ai valori nel terzo millennio e le conseguenti implicazioni pedagogiche.

 

Maturazione etica e salute mentale

Vi è una stretta relazione tra la condizione di benessere psicologico e la piena maturazione etica. Questo doppio obiettivo, come rivelano gli studi più recenti della psicoanalisi e delle neuroscienze, si può affermare solamente attraverso lo sviluppo e l’integrazione di tutte le diverse parti del Sé e dei loro impliciti e differenti “sistemi di valore” (sistemi motivazionali o codici affettivi). Se un bambino, ad esempio, non vive un buon attaccamento alla madre, da adulto non svilupperà una base sicura e questo lo porterà a sentirsi sempre frustrato, insicuro e la sua relazione con gli altri sarà improntata sulla dipendenza o sul dominio. Oppure, se un bambino subirà rimproveri e minacce da parte dei genitori, le sue relazioni future saranno condizionate da vissuti paranoici e da atteggiamenti eccessivamente violenti nella gestione dei conflitti. Le sue parti del Sé ferite condizioneranno negativamente tutti i suoi valori.

Quando si lavora in ambito scolastico, dunque, la programmazione di un corso di Educazione ai valori si fa più complessa e implica strategie multi professionali, multi sistemiche e multi modali finalizzate a creare una condizione di democrazia affettiva. La programmazione di un percorso di Educazione ai valori, cioè, dovrebbe essere fatta coinvolgendo diverse figure professionali (insegnanti, psicologi, pedagogisti e formatori), condividendo gli obiettivi con altri sistemi educativi (oltre la scuola, la famiglia, gli ambiti sportivi, ricreativi e religiosi frequentati dai ragazzi, dando una certa importanza anche alla cultura giovanile con cui i ragazzi entrano in contatto) e infine, andrebbero privilegiate scelte metodologiche e strumenti che rafforzino al massimo la capacità dei ragazzi di saper scegliere.

 

Che cos’è la democrazia affettiva?

 La democrazia affettiva rappresenta una condizione d’equilibrio e armonia tra le diverse parti del Sé. Essa è alimentata da una tendenza naturale all’armonia interna ed esterna. Rappresenta, quindi, il correlato neurofisiologico di una cultura di pace. Tale modello, tuttavia, è ostacolato da difese disfunzionali e da tutto ciò che sul piano educativo e relazionale danneggia la maturazione delle diverse parti del Sé. Un educatore o un insegnante, dunque, se vogliono aiutare un bambino nel difficile compito evolutivo di sviluppare forti valori è necessario che sappiano innanzitutto fare un’attenta valutazione della sua condizione psicologica chiedendosi: che esperienze ha vissuto questa persona fino a questo momento? Ha subito traumi, violenze o lutti? I valori che un ragazzo arriverà a costruire spontaneamente, infatti, possono essere stati indeboliti o cancellati del tutto a causa di gravi frustrazioni o carenze subite nei primi legami infantili. A causa di queste ferite, dunque, al posto dell’autostima, del rispetto degli altri e della fiducia nel futuro, egli potrebbe sviluppare soprattutto tristezza, apatia, chiusura, rabbia, ansia, atteggiamenti manipolativi e di controllo. L’insicurezza potrebbe portarlo a rinunciare ai suoi impegni oppure a sviluppare un ideale distorto di perfezionismo. Se non s’interviene in tempo, dunque, difficilmente poi la realtà adulta riuscirà a modificare questi atteggiamenti e vissuti negativi.

 

I sistemi motivazionali

 Le qualità più importanti e profonde dei valori dipendono soprattutto da sistemi motivazionali studiati dalla psicoanalisi e dalle neuroscienze quali l’attaccamento (codice materno), l’accudimento (codice materno e paterno), il sistema cooperativo di scambio e il sistema competitivo di rango (codice fraterno), la sessualità finalizzata alla formazione di una coppia (codici erotici). Oggi, in sostanza, è possibile evidenziare all’interno del cervello i correlati neurofisiologici della nostra attività mentale, in particolare i sistemi affettivi ed emotivi di base da cui scaturiscono le motivazioni personali e le decisioni, che poi tutti noi, da adulti, riconosceremo come espressione dei nostri valori. Quando si è in grado di offrire una risposta adeguata e positiva all’intenzione promossa da un sistema motivazionale, si attiva una ricompensa di tipo emotivo, mentre un insuccesso implica lo sviluppo di emozioni negative. Da questi sistemi motivazionali decollano valori come l’appartenenza, la cura, la comprensione, la compassione, la responsabilità, l’autonomia, la libertà, la solidarietà, la seduzione e lo scambio. Pur essendo una risorsa filogenetica, i codici affettivi richiedono una sorta di saturazione positiva, alimentata dalla cura amorevole del bambino da parte dei genitori. In caso contrario, un soggetto, pur potendo contare sui codici affettivi come risorsa interna, non riuscirà a esprimere al meglio le loro potenzialità e i loro valori.

Trattandosi di dispositivi interni al servizio della vita e della sopravvivenza dell’uomo, i codici affettivi rappresentano in genere il veicolo di sentimenti positivi. Essi, dunque, quando hanno ricevuto una buona saturazione nel corso della crescita, sono anche orientati alla costruzione di buone relazioni di scambio sia a livello intrapsichico e sia a livello interpersonale.

Tutti questi valori implicano una relazione con gli altri: non possono essere insegnati! Essi vanno costruiti all’interno di relazioni significative.

 

Meccanismi interni disfunzionali

La tendenza a radicalizzare la propria verità, a militarizzare il proprio punto di vista affettivo negando il valore e l’utilità degli altri codici affettivi rappresenta una disfunzione psicologica che si attiva facilmente dentro tutte quelle persone che non sono state aiutate a saturare affettivamente in modo equilibrato i diversi codici affettivi.

Questo scelta disfunzionale rappresenta l’ostacolo più importante in vista dell’elaborazione di un’etica matura. L’imperialismo di un unico codice affettivo, infatti, impoverisce il mondo affettivo interno e impedisce il contatto con gli altri valori veicolati dagli altri codici affettivi naturali, che sono stati silenziati da questo dispositivo; diventa inoltre difficile utilizzare la relazione o eventualmente il conflitto come occasione per crescere e per scoprire altri sguardi affettivi, e quindi altri valori utili per muoversi nella realtà.

In questo processo patologico, avviene una metamorfosi negativa anche degli stessi valori che l’individuo ha conservato: da ideali positivi, che sanno dialogare e integrarsi con gli altri codici affettivi dentro l’individuo e nelle sue relazioni col mondo, essi si trasformano in valori rigidi e militarizzati. Così, essi perdono le proprie qualità ideali positive, sia all’interno dell’individuo sia nelle sue relazioni esterne, e si trasformano da utile Ideale dell’Io in una sorta di Super io rigido e violento. Non nutrito dall’amore dei genitori, in lui il codice del bambino esprimerà soprattutto paura, insicurezza, rabbia e dipendenza, il codice materno, a causa dell’ansia, apparirà debole o invischiante e invadente, il codice paterno, privo di buone identificazioni, sarà debole oppure autoritario, punitivo e controllante, l’articolazione del codice fraterno sarà ambivalente: troppo competitiva o troppo diffidente e sottomessa.

 

Cultura, valori e condizionamento sociale

 L’uomo non ha ancora acquisito dentro di sé la capacità di tradurre nella realtà in una forma armoniosa, completa e integrata tutta la complessa dotazione valoriale di cui dispone naturalmente. Non a caso, tutti i modelli sociali e politici che si sono affermati nel corso della storia umana rappresentano solo un’espressione parziale dei valori naturali: sono, quindi, da un punto di vista psicologico dei modelli incompleti. Per sostenere chi cresce, la cultura in tutte le sue diverse manifestazioni (religione, filosofia, scienze sociali, diritto, politica, sistema educativo e scolastico, narrazioni artistiche e letterarie, ecc.) nel corso dei secoli ha cercato di tracciare delle strade con indicazioni sempre più precise per trasmettere alle nuove generazioni la cornice etica dentro cui muoversi. Una volta imposti nella società come morale, e quindi come costume (la parola morale deriva dal latino mos, moris, significa, cioè, costume; allo stesso modo, anche la parola etica etimologicamente deriva dal greco antico etos, etikos che ha lo stesso significato di costume), tali strade diventano l’etica di riferimento per quella determinata società. Ogni morale sociale, tuttavia, più che essere un costume utile per la definizione dei propri valori, spesso si è trasformata in una corazza rigida che ha impedito alle nuove generazioni di evolversi o più semplicemente di pensare con più equilibrio a ciò che è giusto o sbagliato. Nella società, dunque, oggi come ieri, sono sempre stati presenti degli agenti patogeni capaci di condizionare negativamente i valori naturali di chi cresce. Oggi la ricerca dei propri valori da parte dei giovani si arresta molto presto a causa di elementi patogeni presenti nell’attuale cultura sociale: se sono scomparse, infatti, le grandi ideologie moralistiche, al loro posto è subentrata una cultura edonista e narcisistica che condiziona soprattutto gli individui più fragili. Ne deriva l’incapacità da parte di molti ragazzi di definire un proprio orizzonte etico.

Avere dei valori sentiti profondamente favorisce il benessere psicologico e offre sicuramente maggiori garanzie di creatività rispetto a una vita piatta, tranquilla e priva di scopi.

Diego Miscioscia; Psicoterapeuta, socio fondatore dell’Istituto Minotauro dove insegna nella scuola di psicoterapia. Ha pubblicato numerosi volumi. diegomiscioscia@libero.it

 

Il potere dell’osservatore(Chiara Zagonel)

di Chiara Zagonel dott.ssa in matematica e fisica

Uno dei pilastri alla base della teoria quantistica è il cosiddetto principio di indeterminazione, formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Karl Heisenberg. L’implicazione più importante di tale principio è che l’osservatore non è distaccato dal sistema che osserva, anzi ne fa parte e lo condiziona solo per il fatto che interagisce con esso. Viene così a sfumare la rigida distinzione tra soggetto e oggetto che aveva contraddistinto la fisica fino a quel momento, e la realtà osservata perde ogni connotazione di oggettività. Infatti, essa risulta esistere solo in funzione di una misurazione e della modalità con cui tale misurazione viene effettuata.

Tale principio, che Einstein cercò ripetutamente di confutare senza riuscirvi, si è dimostrato perfettamente in linea con il resto della teoria quantistica ed è stato verificato sperimentalmente in modo indiscutibile. Uno tra i numerosi esempi in tal senso è dato dall’effetto Zenone quantistico, individuato nel 1977 dai due fisici indiani B. Misra e G. Sudarshan. In base a tale effetto, quando si osserva in modo continuo una particella che dovrebbe decadere in un certo intervallo di tempo, tale particella non lo fa. L’osservazione ripetuta impedisce alla particella di decadere ed essa da instabile diventa stabile, come è stato confermato sperimentalmente nel 1990. 

In base al principio di indeterminazione di Heisenberg si può affermare, quindi, che l’osservatore, quello che fa e come lo fa diventano centrali rispetto a tutto il resto, che ne risulta quasi un semplice corollario, una conseguenza, se non addirittura una proiezione dell’intenzione iniziale dell’osservatore. Sembra incredibile che quella che crediamo essere una realtà concreta, oggettiva e indipendente sia invece così strettamente collegata a noi, al punto tale da modificarsi in relazione a quello che facciamo. Eppure è così. 

Passando dal mondo microscopico delle particelle subatomiche a quello macroscopico e riportando tale principio a un livello personale, possiamo affermare che in ogni istante della nostra vita siamo gli artefici di quello che si manifesta e, consapevoli o no, siamo contemporaneamente la causa e l’effetto. È una nostra responsabilità personale il passaggio da ciò che potenzialmente potremmo essere o fare a quello che successivamente accade. Infatti, non è possibile considerarsi dei soggetti distaccati e ininfluenti sulla nostra realtà e in qualche modo vittime di quello che succede, come se fosse esterno ed indipendente da noi. 

Inoltre, bisogna tener presente che l’assunzione di responsabilità a cui il principio di indeterminazione ci richiama non riguarda solo noi ma anche chi ci sta attorno. Di fatto, il modo con cui osserviamo gli altri influisce su di loro. Tutto ciò risulta particolarmente importante se riportato all’interno della relazione con l’altro, soprattutto in campo educativo o terapeutico, dove l’atteggiamento e l’intenzione dell’operatore influisce e determina la risposta di chi ha davanti. È essenziale ricordarsi che, analogamente alle onde elettromagnetiche, ci comportiamo in maniera diversa se sappiamo di essere osservati e rispondiamo a seconda di come viene fatta l’osservazione. Pertanto, guardare a un paziente come un soggetto in un processo di guarigione piuttosto che come una persona malata, o alla vivacità di un bambino come un indice della sua vitalità invece che un fattore di disturbo fa davvero la differenza.

Chiara Zagonel

Chiara Zagonel: dott.ssa in matematica e fisica, ha tradotto Quantum Mind di A. Mindell e ha scritto Storia dei quanti (2019) e Metafore quantistiche (2020). Tiene conferenze e seminari sulla fisica quantistica. 

www.chiarazagonel.it       Fb: Chiara Zagonel

La sacralità del Suono e della Voce

la sacralità del suono, si può ritrovare  in numerose culture e tradizioni, in ogni angolo del mondo. I sufi, attribuiscono al suono qualità divine, e ascoltando alcuni loro canti o musiche, si intuisce ben presto l’importanza degli armonici. In questi canti, la voce, viene “spinta” e fatta risuonare nella testa. Ne scaturisce un suono molto alto, che a volte perde i connotati di voce umana per trasformarsi in morbide sonorità flautate che trasportano il messaggio mistico agli iniziati.

Nel monastero sul monte Athos i monaci ortodossi (padri dioratici) intonano da tempo immemore, canti ricchi di armonici con una tessiture e sonorità molto simili al canto gregoriano, la bellezza degli armonici contenuti in questo  canto risuona nelle cattedrali del vecchio continente,  viene eseguito all’unisono dai monaci cantori creando così armonici naturali che accompagnano, come una sorta di melodia fantasma, tutto il canto. con il passare del tempo viene elaborato e cantato a due voci: quella principale esegue la melodia base mentre un’altra accompagna, passo dopo passo, armonizzando con diversi intervalli.  

Nelle steppe, nei boschi e tra le montagne della  Mongolia, Tuva e Siberia gli overtones trovano la loro più alta realizzazione nella tecnica di canto chiamata hoomi (choomig, xoomij) o “canto di gola”, che  prevede una emissione con due differenti suoni di altezza diversa. Uno di questi è il suono nasale-alto che corrisponde alla fondamentale, il secondo è una nota penetrante e tagliente (una sorta di fischio) che forma una melodia al di sopra della fondamentale. Hamel ci offre una efficace descrizione di come un cantante mongolo possa emettere due o più contemporaneamente :

“egli intona una nota nasale di media altezza, mentre aprendo e chiudendo la bocca, modifica il volume della cavità orale stessa, così facendo varia lo spettro armonico di queste lunghe note. All’improvviso nel punto più alto dell’emissione una melodia cristallina ne scaturisce…..”.

Da questo si evince  come i più abili cantori siano ritenuti in possesso di speciali facoltà, tra le quali quella di comunicare con gli spiriti. Ancora non si conosce la ragione profonda di questo tipo di canto ma, come spiega l’etnomusicologo Ted Levin ( Tuva : Voci dall’Asia centrale), è sicuramente correlato al rapporto dell’uomo con la natura :

“anche oggigiorno il canto di gola è strettamente connesso al rapporto con la natura, e sembra rispondere all’esigenza dell’uomo di esprimere il suo sentimento nei confronti della bellezza della natura. I pastori solitari che conducono le greggi nella steppa, non cantano per gli altri, ma per se stessi, per l’erba, le montagne , il vento, il cielo, la bellezza che li circonda.”

Ritroviamo questi aspetti e questo tipo di canto anche nella tradizione sciamanica dei buriati, popolazione nomade di Tuva (regione della Mongolia occidentale), questo ci è stato confermato parlando con una psichiatra che attualmente lavora presso luna struttura ospedaliera locale  : oggi lo sciamanesimo è praticato liberamente; esiste perfino una clinica sciamanica dove farsi visitare e curare con gli antichi metodi locali. La stessa dottoressa ci ha confermato di avere seguito alcuni casi di guarigione, operata da sciamani, che risultano a tutt’oggi di difficile interpretazione da parte della medicina ufficiale.

L’uso degli armonici nei riti sciamanici è praticato in un vasto numero di regioni al di fuori della Mongolia e dell’Asia , da quella degli eskimo dell’Alaska a quella dei boscimani africani. Anche i maya possedevano una tradizione simile  basata sull’uso del suono e degli armonici ottenuti con strumenti o con la voce, con l’intento di creare energia luminosa ed  evocare così energie spirituali. Gli aborigeni australiani utilizzano per le loro cerimonie tribali uno strumento a fiato che produce una notevole quantità di armonici, il didgeridoo.

Questo strumento è ricavato da rami di eucalipto il cui interno è stato svuotato e “lavorato” dalle termiti. Il didgeridoo produce una nota fondamentale molto bassa, correlata da una serie di overtones molto distinti (il suono prodotto è molto simile a quello delle voci dei monaci tibetani, di cui parleremo più avanti). Lo strumento è suonato soffiando vigorosamente alla sua imboccatura e sfruttando la vibrazione delle labbra ; per essere correttamente suonato richiede la padronanza della respirazione circolare : una tecnica che permette di tenere in “tensione” il suono dello strumento mentre allo stesso tempo si inspira. La tecnica qui descritta ci introduce all’importanza della respirazione nelle cerimonie di tipo tribale/rituale. Gli aborigeni australiani credono che prima dell’apparire dell’uomo sulla terra esistesse una razza di esseri sovrannaturali chiamati Wandijna, facenti parte della razza del “tempo dei sogno” , responsabile della creazione di tutte le forme ed esseri del pianeta. Quando l’uomo fu creato questa “super razza” se ne andò lasciando in regalo agli aborigeni il didgeridoo. Quando questo strumento suona crea un campo sonico ed apre una finestra interdimensionale che permette a queste popolazioni tribali di mettersi in contatto con i Wandijna.

Pare accertato che questo strumento oltre ad essere utilizzato per o riti tribali, venga impiegato in cerimonie di guarigione. La persona ammalata si distende a terra mentre il guaritore soffiando nel didgeridoo ed invocando gli spiriti, fa risuonare la parte malata del paziente e ne provoca la guarigione.  A questo proposito Jim Edward[1] “si ritiene il suono del didgeridoo nei rituali del mattino capace di rendere confortevole il viaggio del defunto  verso la terra dei morti. Le persone cantano per un viaggio sicuro, senza pericoli per l’anima, questo contribuisce a creare uno stato di calma tra i presenti alla cerimonia. Esistono specifiche musiche,  canzoni, suoni, che vengono tramandati di generazione in generazione ed utilizzati nel tempo per questo scopo specifico. Spesso sono gli stessi spiriti che inviano allo sciamano le parole o i suoni da utilizzare; ai non iniziati queste formule possono apparire  sequenze senza senso, che assumono tuttavia la loro forza quando utilizzati nelle cerimonie. Un esempio di ciò lo troviamo presso i nativi americani. Come dice

Joseph Rael ( Freccia Dipinta) “molti di questi suoni li ho imparati, altri è la medicina stessa che me li insegna”.

Il rituale collettivo di guarigione costituisce l’avvenimento centrale nella vita culturale e spirituale dei boscimani, non a caso lo si può considerare il simbolo di questa società che è regolata in base allo stato di salute dei suoi componenti costretti a vivere in condizioni estreme. La figura centrale è lo sciamano,che  attraverso i suoi poteri allontana la morte o la malattie che minacciano  i singoli gruppi familiari.

I boscimani amano la musica, il canto e la danza. Il loro principale strumento musicale è una sorta di arco, che tengono premuto contro la bocca : la corda viene pizzicata ripetutamente, e la tonalità delle note è modificata dall’ampiezza della cavità orale (questo tipo di tecnica è utilizzata anche dalle popolazioni dell’Asia centrale per ottenere, con la voce, i diversi armonici) . Nelle cerimonie dei boscimani, le donne siedono intorno ad un grande fuoco, intonano canzoni purificatrici e battono le mani seguendo un ritmo intervallato e penetrante, che fa da contrappunto alla cadenza delle loro voci. Gli uomini girano lentamente attorno e dietro alle donne emettendo suoni gutturali. La danza gradualmente accelera, i canti si fanno più alti, l’atmosfera più intensa. Lo sciamano  che guida la cerimonia, salta dentro il cerchio delle donne agitandosi e gridando, si dirige verso il fuoco tentando di gettarvisi, ma viene trattenuto dalle donne che spengono con le mani i suoi capelli brucianti e lo stendono per terra dove egli giace in stato di trance, quando si rialza tocca ad una ad una le donne per scacciare gli spiriti maligni, emettendo di volta in volta un suono ben preciso. Il rituale prosegue per tutta la notte, scandito dal suono delle voci e dalla ritmica degli strumenti ad arco ( i boscimani non utilizzano tamburi ) fino all’alba, quando tutti i partecipanti cadono in un sonno profondo.

Bisogna risalire al 1400 circa per comprendere il tradizionale canto dei monaci tibetani dei monasteri di Gyuto e Gyume. Si narra che una notte il lama Je Tzong Sherab Senge udì in sogno un suono mai udito prima, era una voce incredibilmente bassa e profonda che suonava quasi come il ringhiare di un animale e aveva ben poco di umano. Alla prima voce si univa contemporaneamente una seconda voce cristallina e pura, dalle tonalità alte. Nel sogno il lama Je Tzong si accorse di essere egli stesso ad emettere quello strano suono. Venne inoltre istruito su come utilizzare questo tipo di canto, che univa entrambi gli aspetti dell’essere umano, quello maschile e quello femminile, un canto tantrico che in esso racchiudeva l’essenza stessa dell’universo. Il giorno dopo cominciò a recitare le preghiere seguendo questa tecnica. Cinquecento anni dopo, nei monasteri di Gyuto e Gyume (Lhasa) i monaci continuano a recitare i mantra con la stessa tecnica, che apprendono appena novizi e che viene tramandata per via esclusivamente orale. Questa tecnica permette a ciascun monaco di emettere più suoni contemporaneamente creando una sorta di accordo.

Ascoltare questo tipo di canto è veramente un’esperienza fuori dal comune come ci riporta il Dott. Huston Smith nel suo film: Requiem for a Faith:” questi monaci, riescono ad utilizzare la cavità orale in modo da enfatizzare gli armonici che si delineano chiaramente fino a formare una melodia al di sopra della nota fondamentale. Il significato di questo sta nel focalizzare l’attenzione al sacro dall’esterno all’interno, di udire ciò che non è udibile” .I musicologi hanno successivamente determinato che la nota bassa (fondamentale) è due ottave più bassa di un DO (centrale) e vibra alla velocità di 75.5 cicli al secondo, Questo tipo di canto favorisce, in chi lo pratica, la sensazione di una fusione/unione con l’universo e con le sue forze creatrici,  secondo Terry Jay Ellingson[2]: “vi sono diversi motivi che si celano dietro a questa misteriosa vocalità: quello di celare il significato delle parole ai non iniziati, di  trasformare le parole nel suono omogeneo del sacro Om, ed infine di  stimolare i chakras. E’ difficile identificare il profondo  significato di questo tipo di canto, di sicuro l’uso di una respirazione “specializzata”, il risuonare delle cavità della testa, e l’approccio meditativo/reverenziale ne fanno uno strumento estremamente potente ed utilizzabile anche a scopo terapeutico (anche come solo ascolto). Interessante è notare la qualità e la somiglianza del suono prodotto con quello emesso dal didgeridoo degli aborigeni australiani.

Per gli indù è fondamentale il canto dei suoni sacri, (OM AHUM) e quello dei mantra (come OM MANI PADME HUM). Vengono intonati singolarmente, a scopo meditativo, oppure durante riti collettivi. È qui che il loro potere viene amplificato dal canto corale e dalla reiterazione, i partecipanti  prendono il respiro all’unisono e iniziano a cantare, mentre uno finisce, un altro  ricomincia creando un flusso continuo, una pulsazione sonora. Il suono corale crea così un ambiente fortemente mistico-spirituale e predispone a stati di coscienza più elevati.

Lorenzo Pierobon © 2021

 

[1] Jim Edward, All about didgeridoo

[2] Terry Jay Ellingson, The mandala of sound

 

Il rapporto musica-medicina nella storia

In tutte le antiche civiltà la musica ha rivestito spesso il ruolo di contatto con il “divino”, non veniva considerata come opera dell’essere umano, ma come quella di un essere sovrannaturale.
Infatti il suono, proprio per la sua natura impalpabile, era qualcosa di incomprensibile e perciò misterioso e magico. I riti di guarigione diretti dallo sciamano venivano frequentemente accompagnati dalla musica, la quale diventava il mezzo di comunicazione con lo spirito della malattia e lo strumento di dominio della stessa. Attraverso la prolungata monotonia del ritmo, la musica esprimeva la volontà di guarigione dello sciamano e svolgeva una funzione ipnotica. Nel canto si avvicendavano parole di persuasione o minaccia, seguendo una melodia che diventava più lenta o più veloce, più grave o più acuta a seconda delle fasi del rito di guarigione.
La convinzione primitiva che la malattia fosse provocata da uno spirito maligno durò a lungo, specialmente in riferimento ai disturbi mentali. La musica quindi diveniva lo strumento di persuasione (e propiziatorio) e acquistava un significato più propriamente religioso. Fu la civiltà greca ad accostarsi in maniera più razionale all’elemento sonoro-musicale. La musica fu adoperata come mezzo curativo o preventivo supponendo che certi modi (combinazione di suoni in successione) avessero un valore emozionale. Platone riteneva che ciascun modo producesse effetti specifici sui costumi morali, Aristotele raccomandava l’impiego del modo dorico che infondeva coraggio o di quello lidio più adatto ai bambini piccoli.
Anche gli strumenti svolgevano delle funzioni ben definite; il flauto era lo strumento ritenuto in grado di destare le passioni e per questo Aristotele affermava che doveva essere usato solo quando l’oggetto della musica era la purificazione delle emozioni e non lo sviluppo della mente. In epoca romana, l’uso del suono come terapia di guarigione, conservava forti influenze derivanti dalla cultura greca.
Nel medioevo ritroviamo la musica/suono utilizzata nelle pratiche religiose o per riti magici (nei sabba le streghe ballano ritmi frenetici per invocare i demoni). Di nuovo la malattia era vista come possessione ( i tarantolati ne sono un esempio tramandato fino ai nostri giorni) e la musica riacquistava connotati magici. Dobbiamo arrivare al periodo rinascimentale per ritrovare la musica come strumento terapeutico, studiata in maniera razionale e scientifica. Dal 1500 in poi, numerosi uomini di medicina si interessarono a quest’arte; alcuni la concepivano semplicemente come mezzo di evasione, altri invece approfondirono gli studi sulle modificazioni fisiologiche indotte dalla musica, studiandone gli effetti prodotti sulla pressione sanguigna, sul respiro, sulla digestione e scoprendo relazioni tra i ritmi corporei e quelli musicali. Da allora fino ai nostri giorni, esistono numerose testimonianze sull’uso dell’arte musicale come strumento terapeutico. Il termine musicoterapia però, è stato coniato e utilizzato solo a partire dagli anni ’50, quando negli Stati Uniti si ottennero i primi risultati positivi introducendo la terapia musicale negli ospedali per veterani di guerra.

Lorenzo Pierobon © 2021

Il mito di Atlante: un’anatomia della voce tra terra e cielo (Luca Cascone)

Secondo il mito greco, Atlante era un Titano, una delle prime divinità legate alle potenze naturali. Secondo Esiodo si schierò con Crono (il Tempo), secondo Signore del Mondo, nella guerra scatenata dal figlio Zeus per la supremazia. Persa la battaglia, Atlante fu condannato da Zeus a reggere il peso del cielo sulle sue spalle per allontanarlo dalla terra.
Originariamente era emanazione diretta della potenza del Mare (da cui infatti l’Oceano Atlantico, e la perduta isola di Atlantide). Figlio, oltre che di Giapeto o di Zeus, di Climene o di Asia, progenie di Oceano e Teti, le prime personificazioni del Mare, nonché padre di Calipso e delle Esperidi, Atlante incarnava per Omero ed Esiodo la capacità dell’Acqua di mobilizzare grandi forze (dalla stessa radice viene il verbo latino tollo, da cui “tollerare”, “portare”). Il suo nome è stato traslato per metafora al compendio per eccellenza – quello delle mappe (geografiche, anatomiche, …) che per così dire reggono la conoscenza sistemica -, a una catena montuosa, per la sua solidità, e alla prima vertebra cervicale, quella parte corporea che regge il peso del capo.

Perché parlare di mitologia in un articolo sulle relazioni tra voce e sistema cranio-cervicale?
L’Atlante mitologico solleva il cielo (o il mondo, in altre raffigurazioni) come quello anatomico regge il capo. La sua struttura di circonferenza ossea, con le superfici articolari conformate a delineare in due fosse curve una sezione di sfera cava, ne fanno il perfetto alloggiamento per la sfera piena dell’occipite, la struttura che costituisce gran parte della base del capo, insieme ai due temporali e allo sfenoide, e accoglie le strutture più inferiori del complesso encefalico (romboencefalo).
L’Atlante mitologico poggia i suoi piedi al confine della terra, come quello anatomico si poggia su una solida struttura, la seconda vertebra cervicale (detta “epistrofeo”, dal greco “girare intorno”), che ne completa la struttura e la funzione con due faccette articolari conformate a binario, perfette per una rotazione molto ampia (45° per lato, la metà di tutta la rotazione cervicale!), e un massiccio dente che ne costituisce il perno. A sua volta, l’epistrofeo si appoggia sulla colonna cervicale.
Queste strutture costituiscono posteriormente le inserzioni dei muscoli suboccipitali, fondamentali nell’aggiustamento fine del capo, e hanno relazione con i maggiori muscoli della regione craniocervicale (trapezio, spleni, sternocleidomastoideo, lunghi del collo, …), di cui il complesso occipito-atlanto-epistrofeo (OAE) è a tutti gli effetti il perno di orientamento, in sinergia con gli i segnali sensoriali (vista e udito in primis).
Fondamentali anche le relazioni vascolari e neurologiche di questa area: da qui passano in transito da e per il cranio i principali rami vascolari (arterie carotide interna ed esterna, arteria vertebrale, vena giugulare), nonché nervosi (nervo vago, accessorio, glossofaringeo, in connessione con il sistema trigeminale e facciale) che garantiscono la gran parte dell’organizzazione cinetica di cranio, faccia e collo. Da qui inoltre il midollo spinale incontra il tronco encefalico endocranico, costituendo il cosiddetto ponte miodurale, la connessione diretta tra le meningi encefaliche e i sopracitati muscoli suboccipitali: l’Atlante è a tutti gli effetti il luogo di confine tra terra (il corpo) e cielo (il cranio e il suo contenuto), bagnato da un mare in perenne fluttuazione, quello del sistema liquorale che circonda, protegge e nutre il sistema nervoso centrale.

Qui entra in scena il sistema oro-faringo-laringeo, a cui la base cranica è strettamente collegata, insieme al sistema muscolare ad esso associato, che comprende muscoli mimici, masticatori, palatini, faringei e, ovviamente, i famosi sovra- e sotto-ioidei. Tutti questi muscoli hanno connessione a vario titolo con occipite, temporale, sfenoide e sistema OAE, e per intermediazione del continuum linguale e delle strutture nervose la laringe intreccia una relazione biunivoca con il passaggio craniocervicale, non solo o necessariamente in senso strutturale, ma anche e soprattutto funzionale. Ad esso si appendono le strutture che proseguono verso il basso nel sistema respiratorio e in quella numerosa serie di strutture che costituiscono il sostegno posturale all’attività pneumofonatoria.
I nervi sopra citati (trigemino, facciale, vago, accessorio, glossofaringeo) costituiscono quello che in relazione alla teoria polivagale è stato chiamato sistema nervoso sociale, di cui l’attività vocale costituisce una diretta emanazione insieme alle modulazioni posturali e comportamentali che si accompagnano alle attività affettive, o alla loro modulazione e dis/organizzazione anche sulla cascata posturale che esse modulano e dirigono nel dialogare con l’ambiente.

Senza tenere in conto la natura acquea del Titano mitologico, ovvero quella affettiva del corpo umano, la regione craniocervicale non acquista il suo senso più intimo e profondo: quello di custode e veicolo dell’espressione (o non espressione) e comunicazione (o non comunicazione) umana.
Non a caso dall’evoluzione sinergica di quest’area la specie homo ha sviluppato, come ben analizzato da S. Mithen nelle sue teorie sull’evoluzione del linguaggio, da strutture originariamente deputate a scopi come l’alimentazione e la respirazione (anch’essi comunicativi), la capacità di trasdurre i moti interiori in canto e poi in parola, organizzando così il pensiero e il linguaggio che lo edifica. Non a caso è la fluidità del respiro, sostenuto e appoggiato ad una sinergia pneumatica che viene dal sistema di catene muscolari ben conosciuto dai vocologi e utilizzato dai vocalisti, facente capo al sistema dei diaframmi, connesso alla base cranica e al complesso OAE, a portare la voce come un’onda fluida e costante verso la sua vibrazione laringea e verso la sua modulazione superiore (strutturale e cognitiva). O, per dirla con il linguaggio mitico, non a caso Atlante si appoggia sulla Terra reggendo il Cielo con la forza delle Onde.

Luca Cascone

Osteopata D.O., Musicista e Musicoterapista in formazione, Facilitatore di Medicina Narrativa.
Da sempre esploratore delle relazioni e dei confini tra i diversi ambiti dell’umano, fonde lo studio dell’anatomofisiologia a quello della comunicazione e degli stati di coscienza e consapevolezza dell’uomo in relazione a sé e all’ambiente.
Narratore per vocazione, si occupa del linguaggio narrativo in ambito non verbale, para verbale e verbale come mezzo di costruzione, sostegno e trasformazione della coscienza individuale e di comunità.

spazioarmoniasalute@gmail.com

www.spazioarmoniasalute.com

La sperimentazione artistica e l’espressione dell’anima: la voce-corpo.

Dalla tesi di VOCOLOGIA ARTISTICA (a.a. 2019 – 2020) di SERENA VERGA LA SPERIMENTAZIONE ARTISTICA E L’ESPRESSIONE DELL’ANIMA:  LA VOCE-CORPO.

Da Demetrio Stratos alle neuroscienze, dalla drammaturgia vocale alla comunicazione non verbale

Intervista a Lorenzo Pierobon a cura di Serena Verga

 

Foto di: Roberta Sotgiu

 Con il  passare del tempo, studi, ricerche e sperimentazioni hanno reso tutti più consapevoli di quanto sia davvero importante il “prendersi cura” di se stessi, come Voce e come Corpo. Si è dimostrato anche che la Musica e le Arti, a tutti gli effetti, siano un phàrmakon naturale. Secondo lei, da musicoterapeuta, cantante, formatore e vocal trainer quale è, quanto influisce una buona conoscenza di se stessi (come Voce-Corpo) nella vita di tutti i giorni? 

Bella domanda! Influisce molto. Mentre prima ci basavamo sulla saggezza popolare del “canta che ti passa”, adesso siamo arrivati alla piena consapevolezza di quanto il canto faccia bene al nostro organismo e quindi di quanto sia davvero importante conoscere la nostra voce. Se tutti partissimo da una conoscenza pregressa e approfondita della nostra voce, questo ci direbbe già tanto di noi. Se la mia voce urla e aggredisce dice di me una cosa, se la mia voce non si sente, è bassa, sommessa, dice di me un’altra cosa. Quindi già come la si utilizza può dire e dare delle informazioni all’esterno, per cui penso che sia veramente molto importante conoscerla a fondo per conoscere se stessi. Teniamo presente che la voce è unica in ognuno di noi, molto più di un’impronta digitale di cui pare se ne possano trovare alcune simili fra gli esseri umani; la voce ci contraddistingue pienamente l’uno dall’altro, essa è proprio ciò che ci definisce dal punto di vista timbrico, acustico, fisiologico, ma chiaramente dentro quel suono si racchiude anche la nostra storia emotiva.

Ha compreso perfettamente ciò che intendevo. C’era e c’è ancora gente che non riesce a capire quanto lavoro ci sia dietro una voce. Questi studi, queste sperimentazioni che facciamo hanno l’obiettivo di divulgare questo pensiero, affinché si cominci a pensare alla Voce in maniera più totalizzante, ossia come strumento di comunicazione a 360° che ci rappresenta come persona, oltre che come artisti – nel caso in cui si faccia parte della schiera dei lavoratori dello spettacolo.

In questo mio viaggio di ricerca ho scelto di intraprendere anche questo studio di contrapposizione e comparazione tra Demetrio Stratos ed Antonin Artaud, prendendoli come esempi, il primo nel canto e nella sperimentazione vocale e il secondo nel teatro: ho potuto constatare che entrambi, nonostante abbiano vissuto in periodi storici differenti e si siano mossi in ambiti artistici diversi seppur accomunabili, sono arrivati alla conclusione che la Voce-Corpo sia una medicina naturale, un mezzo di rinascita personale, e proprio attraverso la loro arte e i loro studi hanno voluto dimostrare quanto il suo utilizzo e la sua conoscenza possa essere utile a tutti, sia nel settore canoro che in quello teatrale; l’Arte non più solo come svago effimero, passeggero, ma come “cura” per l’essere umano, liberazione corporea, perché l’Uomo non può fare a meno dell’Arte come l’Arte non può fare a meno dell’Uomo. 

Sono perfettamente d’accordo. Tieni presente che Demetrio Stratos (una testimonianza la si ha anche in un vecchio documentario a lui dedicato su Rai 4) si recava proprio nelle scuole per parlare di Voce, per rendere partecipi anche i bambini delle sue sperimentazioni vocali e i piccoli restavano affascinati da tutto questo. Questo era un modo ulteriore per far capire quanto la Voce fosse (ed è) uno strumento importante, anche nel relazionarsi col mondo. Infatti sia nei lavori di gruppo che in quelli individuali, sia nel teatro che nel canto, le persone che iniziano un percorso sulla Voce, man mano che prendono dimestichezza col proprio strumento, diventano più sicuri, l’autostima cresce inevitabilmente (parli e comunichi in modo migliore, sei meno timido, gestisci di più la tua emotività, …), si ottengono grandissimi riscontri. Non a caso, la Voce è musicoterapia e la Voce-Corpo è il primo strumento che utilizza il musicoterapeuta per lavorare.

 Ci parli un po’ del suo Vocal Harmonics in Motion®: in cosa consiste?

 Il metodo VHM (acronimo dall’inglese Vocal Harmonics in Motion®) parla di Armonici Vocali in Movimento. Ho scelto di eleggere il canto armonico (o meglio, la modalità di emissione degli overtone) come mezzo o tecnica principale del mio lavoro, perché – prima di tutto – è molto facile (a dispetto di quanto possa sembrare!): i bambini – per esempio – ci mettono cinque minuti per impararlo giocando (chiaramente nel caso in cui qualcuno voglia farlo diventare il suo principale mezzo espressivo artistico ci deve stare molto più tempo e studiarlo approfonditamente, come per tutte le cose, perché ci vuole allenamento e costanza). Quindi, dicevo, l’ho scelto perché il canto armonico può essere facile, ha un approccio ludico per tutti (indipendentemente dall’età anagrafica) e inoltre quando si riesce a farlo bene provoca dentro di noi, ancor di più di un canto tradizionale, una cascata emotiva di ormoni, di endorfine, insomma un senso di piacere e appagamento senza pari. Durante la sua emissione, si lavora sulla cosiddetta consonanza di testa, stimolandola fortemente, e di conseguenza abbiamo un personale cambio di stato di coscienza molto marcato, rapido. Per esempio, nel momento in cui si fa l’humming (ossia l’emissione controllata e silente di una “m” prolungata che dà una leggera sensazione di formicolio alle labbra) per poi passare gradualmente alla formazione e all’emissione degli armonici, pian piano, procedendo in questo esercizio vocale in stato meditativo, inizieremo a notare un notevole cambiamento (ciclo respiratorio, battito cardiaco, ecc.), come se riuscissimo magicamente a mantenere un controllo maggiore di noi stessi, raggiungendo una stabile sensazione di benessere psicofisico.

Quindi se dovessimo spiegare in poche e semplici parole cos’è il canto armonico?

 Il canto armonico è paragonabile all’immagine di copertina dell’album The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, mi riferisco al disegno del prisma, potremmo racchiudere lì il suo significato: il fascio di luce bianca entra nel prisma e viene scomposto nei colori primari. In altre parole, la nota fondamentale passa nei risuonatori (labbra, bocca, vocal tract e lingua) che sono il nostro “prisma” e da quello vengono fuori i vari colori della Voce, quindi i parziali che compongono la nota fondamentale. Di fatto, in termini musicali, si tratta proprio di estrarre il “colore” della Voce, ossia quello che poi va a costituire il timbro e che ci rende unici l’uno dall’altro e percettivamente riconoscibili. Per esempio, se togliessimo gli armonici da una tromba non la distingueremmo più da un pianoforte o da altri strumenti musicali. Con le tecniche del canto armonico, della manipolazione della nota fondamentale, siamo in grado di far suonare più o meno evidentemente il primo, il secondo, il quinto, il decimo, il dodicesimo armonico ed ottenere così quell’effetto “intervallo” o di sdoppiamento del suono che tanto affascina. Parliamo di “movimento” (ossia armonici “in movimento”, rifacendoci anche al nome del mio metodo di approccio didattico), perché – prima di tutto – c’è realmente un movimento all’interno del cavo orofaringeo (la lingua ha indubbiamente un ruolo primario in tutto questo) e poi ho anche scelto di abbinare a queste modalità di emissione una serie di movimenti presi dalla bioenergetica e anche da tradizioni millenarie, come il Qi Gong (ho questa matrice un po’ orientale nella mia formazione), che ho trovato molto efficaci in abbinamento con il suono.

Nella mia tesi ho parlato anche del concetto di grounding tratto proprio dalla bioenergetica e del pensiero di Alexander Lowen: mi è piaciuto molto questo parallelismo dell’albero e delle sue radici all’essere umano, per “(ri)collocarci” e ritrovare così noi stessi.

CertoIl concetto di “radicamento” è la base del mio lavoro, un lavoro carico – potremmo dire – di simbolismo.

Carico di suggestioni, allusioni, meglio ancora di percezioni.

 Esatto! Per esempio, nel momento in cui richiedo l’emissione di una “U” grave è per avvicinarci al concetto di radicamento, per sentirci come a stretto contatto con la terra, per poi passare all’emissione di una “I” accompagnandola alzando le braccia (sembrerà come se quella “I” non uscisse solo dalla bocca, ma dalla punta di ogni singolo dito della mano per andare verso l’alto, sempre di più): nel passaggio dalla “U” grave (fase di “radicamento”) alla “I” acuta (fase di “innalzamento”), è come se ci si sentisse davvero un germoglio che a sua volta diventa poi alberello, poi albero che mette radici e che cresce stagliandosi sempre più verso il cielo. Potremmo dire che va davvero in alto (anche con il suono) solo chi è ben radicato. Senza rendercene conto, raggiungeremo poi la cosiddetta nota di passaggio (che unisce le consonanze petto/testa) in maniera del tutto naturale, imparando spontaneamente. Ecco perché “in motion”, il movimento per me è fondamentale: se vuoi proiettare un suono, io te lo faccio prendere e lanciare (in senso figurato), come se prendessi, per esempio, la “O”, la stringessi fra le mani e la lanciassi in acqua come se fosse pietra oppure come scoccare una freccia. Il gesto corporeo aiuta fortemente la memorizzazione di particolari percezioni sensoriali, facendo sì che anche la Voce possa raggiungere una maggiore consapevolezza di sé, migliorandone l’uso quotidiano per sentirci così più liberi.

Quali esercizi consiglia ad allievi di musica e teatro per mantenersi in forma e in costante allenamento quotidiano per un utilizzo più consapevole della Voce-Corpo in ambito professionale? Lavora su propriocezione, postura e respirazione? Se sì, come?

 Prima ancora della Voce, lavoro particolarmente su propriocezione ed ascolto. Bisogna imparare ad ascoltarsi, a chiedersi “Come sto oggi?”, “Come sta andando?” (per esempio, se esco dalla sala prove accusando dolore o fastidio vocale, vuol dire che non sono in forma oppure che non ho lavorato nel migliore dei modi o che ci sarà qualcosa su cui – da ora in poi – dovrò fare particolare attenzione!). Subito dopo l’ascolto di se stessi, viene la respirazione, o meglio l’ascolto del proprio respiro: non è affatto semplice ed immediato per tutti. Fra gli esercizi basilari, faccio fare tanto l’humming, ossia l’emissione silenziosa della “M” con la masticazione a vuoto e conseguente passaggio dalla “M” alla “N”; successivamente faccio usare – se necessario – anche le “cannucce” che sono compresi fra i cosiddetti dispositivi SOVTE (Semi Occluded Vocal Tract Exercises): non impiego la mascherina e non faccio fare altri esercizi a vocal tract semi-occluso, ma prediligo l’uso della cannuccia da sola oppure la cannuccia inserita in una bottiglietta riempita a metà di acqua. Questi li inserisco fra gli esercizi di riscaldamento/defaticamento vocale e anche come mezzi per incrementare le proprie potenzialità espressive. Quindi propriocezione e respirazione unite nell’ascolto di se stessi, questo è il mio lavoro, attraverso un viaggio individuale che diventa come un vero e proprio rito di purificazione per riconoscersi pienamente. Le persone che frequentano i miei seminari è come se scegliessero di tuffarsi in un viaggio sonoro che li allontani momentaneamente dai rumori esterni per concentrarsi su se stessi, per darsi spazio e collocarsi – come sono solito dire – nella stanza del respiro (come una meditazione yoga, per intenderci). Da lì, dalla stanza del respiro, si inspira e si espira profondamente e silenziosamente, passando poi all’emissione della “S” (per scacciare pensieri tristi, rabbia e pesi vari che ci portiamo nella nostra vita, talvolta troppo frenetica). Dopodiché passo all’humming (la “M”, di cui ho accennato prima) che aiuta il rilassamento, sfruttando le cavità nasali e la consonanza: qui si attiva fortemente la propriocezione. Poi si passa alla “N”, come suddetto, che dà una sensazione di verticalità del suono, sfruttando una diversa consonanza e risonanza rispetto alla “M”. Successivamente, se si vorrà e se reputo necessario, da qui si parte ad esplorare il canto armonico, attraverso l’enfatizzazione sonora nel passaggio lento da “M” a “N” (a bocca chiusa), come se si masticassero le due lettere, in leggera nasalizzazione: nel caso in cui si abbia la strana (ma bella) sensazione di sentire più suoni in uno, detto in parole semplici, si avrà a che fare con gli armonici. È un viaggio di continua sperimentazione, un dialogo intimo e silenzioso con se stessi.

 Insomma pochi (intensi) esercizi base, per un vero e proprio viaggio dentro di sé, per ritrovarsi, ascoltarsi, conoscersi meglio. È come se imparassimo a guardarci dal di fuori, da un occhio esterno che sappia osservare i nostri movimenti e da un occhio interno che sappia invece percepire le nostre più piccole tensioni ed emozioni.

 Sì. Tutto è ascolto, osservazione, concentrazione.

 Nel suo mondo fatto di musica come terapia e anche nei suoi seminari (che mi piace definire, più che corsi, “viaggi esperenziali”), quali effetti ha riscontrato sui partecipanti?

Mi capita di incontrare persone con storie diversissime fra loro nei miei seminari: ci sono artisti (attori, cantanti e chiunque usi la Voce a livello professionale), c’è chi viene per cercare di conoscersi meglio, risolvere dei problemi personali o scontrarsi con la propria emotività per uscirne più forte. Diciamo che non c’è una richiesta terapeutica vera e propria, per cui possiamo dire che il mio lavoro non è terapia ma è terapeutico. Chiaramente se lavoro con pazienti psichiatrici è un altro mondo e in questi casi bisogna stare anche molto attenti agli effetti del lavoro vocale, perché esso può caricare positivamente, ma può anche scompensare qualcos’altro. Gli esercizi ai quali sottopongo un professionista vocale e un paziente patologico talvolta possono anche essere identici, ma ciò che davvero differisce l’uno dall’altro è l’obiettivo: il professionista vocale lavora per migliorare ed ottimizzare la sua performance, mentre il paziente patologico lavora per gradi ed è accompagnato in un percorso che porti ad uno stato di equilibrio emotivo. In ogni caso, parto sempre e comunque dall’ascolto di se stessi.

Realmente non so mai chi mi capiterà in un seminario, quindi la cosa fondamentale è non dimenticarsi mai di utilizzare la Voce con estrema attenzione, perché non tutti possono essere preparati ad un lavoro così personale, perché qui non si parla di lavoro tecnico o su spartito – per intenderci, ma si parla di emozioni, di situazione psicofisica, a cui bisogna affacciarsi con estrema cura e sensibilità. Naturalmente nel caso di pazienti affetti da tossicodipendenza, depressione, ansia, autismo, varie lesioni cerebrali, mi affianco a medici specialisti (come neurologi, psicologi e psicoterapeuti, omeopati, ecc.). Non è facile lavorare in questi ambiti, bisogna avere determinate competenze e la musicoterapia può ottenere delle risposte positive in certi casi: per esempio, è ormai stato attestato che l’utilizzo della Voce come strumento terapeutico principale vede la mia metodologia (Vocal Harmonics in Motion®) particolarmente indicata per il recupero dei pazienti affetti da afasia o da patologie legate alla Voce e alla comunicazione. Per quanto riguarda la relazione tra musica e linguaggio nei pazienti pediatrici con disturbo dello spettro autistico, uno studio internazionale ha valutato l’efficacia della musicoterapia, in particolare dell’improvvisazione musicale, su un campione di quasi 400 bambini autistici di 4-7 anni di nove Paesi diversi, fra cui il nostro.

Risultati molto importanti. Non c’è alcun dubbio: l’Arte è phàrmakon per il corpo e per l’anima.

Assolutamente sì. Uso sempre un’immagine [v. sopra] come metafora del mio lavoro: sembra un semplice oggetto rotto, da buttare, ma in realtà è un oggetto le cui parti frantumate sono state rimesse a nuovo riempiendole di oro, cosicché l’oggetto possa essere conservato intero, non a cocci, persino rivalutandolo. Si chiama Kintsugi, l’arte giapponese di riparare oggetti rotti; metaforicamente è l’arte di ridare valore alle proprie ferite, abbracciando pienamente la bellezza delle “cicatrici”. La stessa cosa succede quando io lavoro sulla Voce di una persona, sia a livello artistico che terapeutico: so bene di avere a che fare con la sua storia personale, quindi con le sue gioie ma anche con i suoi dolori; se le sue ferite riescono a riempirsi di oro riacquistano valore trasformandosi in forza e tutto viene poi automaticamente a ricadere sulla Voce (nell’interpretazione di una canzone come nella quotidianità).

Proprio così esce fuori la nostra vera essenza e non abbiamo più paura di nasconderci, perché sono proprio le nostre ferite a renderci davvero unici.

Due parole, tecnica e improvvisazione: cosa le viene in mente? Quanto è importante l’una e l’altra per essere un artista vocale?

Secondo me sono importanti ambedue, sono a 50 e 50. La tecnica serve prima di tutto ad imparare come non farci male e poi ad evolvere vocalmente, mentre l’improvvisazione ci dà la libertà di esplorare dei linguaggi sempre diversi e sconosciuti, pur facendoci capire ugualmente tante cose con maggiore spontaneità.

Potremmo dire che il lavoro prettamente di musicoterapia è basato più sull’improvvisazione che sulla tecnica?

 La musicoterapia, anche quella non vocale, o meglio la metodologia con cui mi sono formato – che è il modello Benenzon (dal nome del fondatore Rolando Omar Benenzon, musicista e psichiatra argentino) – è basata sul non verbale (con l’utilizzo di Voce e strumenti) e sull’improvvisazione, è un dialogo sonoro a tutti gli effetti, dove tu dici senza dire con le parole, ma semplicemente interagendo con gli strumenti e con la tua stessa Voce. Insomma improvvisazione pura. In ambito pienamente artistico, invece, tecnica ed improvvisazione devono andare di pari passo, l’uno può prevalere sull’altro saltuariamente, ossia può capitare che l’uno si scontri fortemente con l’altro, ma comunque sono entrambi parte attiva del processo di comunicazione ed espressione artistica e – secondo me – bisognerebbe lavorare sempre in maniera sinergica e complementare. La tecnica non può esistere senza l’altra e viceversa.

Concludo chiedendole una cosa a cui potrà rispondere anche con poche semplici parole che possano sintetizzare un po’ il motivo per cui ha scelto la difficile, affascinante e delicata strada dell’Arte e delle emozioni: per lei, cos’è la Voce o Voce-Corpo?

 Mi sento di dire che non ho scelto, ma sono stato scelto. Inizialmente la strada che avevo intrapreso era completamente diversa da quella attuale, poi ad un certo punto, quasi casualmente, sono stato scelto dalla via della Voce e non ho potuto fare a meno di percorrerla. Quindi per me è tutto, è il mio lavoro, la mia passione, la mia espressione artistica, tutto si fonde nel mio percorso di essere umano. Sono nel posto giusto a far la cosa giusta. Aggiungo che faccio la cosa più bella del mondo. Spero sempre di trasmettere l’entusiasmo con il mio lavoro e per il mio lavoro. Nel momento in cui trovi la tua direzione non c’è nient’altro, sei talmente dentro, come in un flusso continuo e costante, da non dover neppure cercare altro, devi solo essere. Una volta che sei davvero a fuoco, nel tuo ambiente, arriva tutto: le persone giuste, il lavoro, le occasioni. Neppure l’Universo può andare contro di te, perché tu sei quello e basta, tutto funziona esattamente come deve essere.

Grazie infinite per la sua preziosa disponibilità e gentilezza.

 Grazie a te.

SERENA VERGA cantautrice, cantante interprete e attrice. Laureata in Lettere e con Laurea Magistrale in Spettacolo e Produzione Multimediale conseguita con Lode. Esperta in Vocologia Artistica. Ha studiato in accademia sia musica che teatro (anche musical), vantando la partecipazione a tantissimi corsi e stage con Maestri nazionali e internazionali. Ama scrivere. Insegnante di canto e voce, si occupa anche di direzione corale e di laboratori teatrali. Studiosa e sperimentatrice vocale, spazia fra vari generi e stili, dal pop al jazz e al musical, senza mai tralasciare la bellezza dell’improvvisazione e le innumerevoli possibilità di espressione ritmica e di interpretazione artistica. È critica musicale e teatrale, cinematografica e televisiva.

E-mail: serenaverga@yahoo.it

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La metafora della vista (Laura Canepa)

Visus Occhio Destro 10/10
Visus Occhio Sinistro 4/10 con correzione -1.00sph 10/10
E siamo a posto ! Ma siamo veramente a posto ?
In effetti porre una lente davanti all’occhio che non vede significa ridare “luce” a quell’occhio, significa aiutarlo a “vedere”…è un bel lavoro che aiuta velocemente a superare un disagio.
Un disagio di cui purtroppo non si conosce la causa o si pensa che non si possa conoscere.
Sarebbe importante chiedersi come mai un occhio non riesce a vedere
Sarebbe interessante ricostruire la storia di quell’occhio e di quello che ha visto o di quello che non ha potuto vedere.
Il mio lavoro consiste proprio nell’insegnare agli occhi a “vedere di nuovo”
Il nostro corpo parla, i nostri occhi conducono il nostro corpo nello spazio.
Attraverso il “movimento” coordinato e armonico, possiamo riprendere per mano la funzione visiva dimenticata e riattivarla. Il processo è rilassante e soprattutto ludico, è un viaggio alla ricerca di una parte di se che crediamo perduta e dimenticata. Quando si verifica un “Blocco energetico oculare “che provoca la cattiva visione”, si può sciogliere proprio con il movimento accompagnato dalle vibrazioni della musica, frequenze che fanno vibrare le nostre cellule.
Ho avuto un’esperienza molto illuminante quando diversi anni fa seguivo una paziente che, reduce da chirurgia refrattiva ,frequentava il mio studio per vedere meglio e risolvere anche quel piccolo residuo miopico che l’intervento le aveva lasciato. Ebbene , la introdussi al Metodo Bates e comprese la connessione tra occhi e corpo, tra occhi e respiro, tra occhi ed emozioni , tra vista e movimento….e molto altro ! Comprese molti aspetti della sua vista ed entrò in un mondo percettivo diverso fatto di profondità, di spazio e di luce che prima non conosceva. La invitai a partecipare a un corso di Canto armonico che Lorenzo Pierobon teneva a Genova. Fu così che conobbe le frequenze della sua voce e le vibrazioni emozionanti che le procuravano. Sentì sciogliere dentro di se qualcosa di raggrumato che non voleva andare via…sentì i suoi occhi lasciare andare tutta quella rigidità che la chirurgia non aveva potuto eliminare .
E soprattutto divenne sensibile ai cambiamenti della sua visione, della sua percezione godendo di una vista migliore, arricchita da spazi ed emozioni.
Comprendere il concetto di frequenze aiuta ad ampliare la nostra sensibilità e il nostro benessere semplicemente ponendoci in ascolto di noi stessi, delle frequenze del nostro cuore, della nostra voce e dei nostri occhi. Oggi più che mai è importante ampliare la nostra consapevolezza e attingere a energie interiori che danno spazio al nostro animo e potenziano la nostra resilienza. Noi siamo molto di più di quello che pensiamo!
Laura Canepa
Nasce a Genova dove vive e lavora.Si laurea in Ortottica nel 1992.Nell’anno 2001 fonda L’aiev, Associazione Italiana Educatori Visivi. Nel 2008 fonda Aivon , Associazione Internazionale per la visione olistica naturale E’ socia di Sipnei , Società Italiana di psiconeuroendocrinoimmunologia Il suo lavoro e i suoi studi sono tesi a ridare benessere visivo alle persone che desiderano curare la propria vista e la salute degli occhi con metodi naturali. Il Metodo Bates di Laura Canepa si integra con altre discipline.
Studio: Genova, Corso Gastaldi, 53/a/r www.vistabates.it www.vivilavista.blogspot.com
Cell. 3479311720 Tel.010317084

Per approfondire l’argomento leggi: Sentire con gli occhi